Nel dettaglio, spiega una nota, da settembre 2014 a settembre 2015 altre 283mila persone sono entrate nel bacino dei deboli in Italia: complessivamente, adesso, si tratta di 9 milioni e 533 mila soggetti in difficoltà. Ai disoccupati vanno aggiunte ampie fasce di lavoratori, ma con condizioni precarie o economicamente deboli che estendono la platea degli italiani in crisi. Si tratta di un'enorme "area di disagio": agli oltre 3 milioni di persone disoccupate, bisogna sommare anzitutto i contratti di lavoro a tempo determinato, sia quelli part time (740mila persone) sia quelli a orario pieno (1,83 milioni); vanno poi considerati i lavoratori autonomi part time (821mila), i collaboratori (346mila) e i contratti a tempo indeterminato part time (2,68 milioni). Questo gruppo di persone occupate - ma con prospettive incerte circa la stabilità dell'impiego o con retribuzioni contenute - ammonta complessivamente a 6,43 milioni di unità. Il totale del'area di disagio sociale, calcolata dal Centro studi di Unimpresa sulla base dei dati Istat, oggi comprende dunque 9,53 milioni di persone, in aumento rispetto a un anno fa di 283mila unità (+3,1%).
A quanto pare, invece, i dati sugli investimenti in start up del 2015 sono assimilabili a quelli dell’anno precedente: 40 milioni circa nel 2014 e 20 milioni nel primo semestre del 2015, mentre aspettiamo i dati definitivi relativi alla seconda metà dell’anno. Si tratta di cifre assolutamente irrisorie e prive di costanza, se paragonate a quelle di altri Paesi europei come la Germania o la Francia. Il risultato è che l’Italia può vantare studi eccellenti, ricerche importanti e pubblicazioni divulgate e consultate dalla comunità scientifica internazionale, ma scarsi investimenti per perfezionare la ricerca e renderla innovazione. Per diventare, in una parola, leader e non sempre e solo utenti, fruitori. Eppure in tempi di crisi economica e di disoccupazione al 12 per cento (quella femminile al Sud è in crescita e non in diminuzione) investire in sviluppo sarebbe forse l’unico modo per dare una significativa scossa a un sistema sostanzialmente in stallo. E gli investimenti dovrebbero smettere di avere il sapore dell’elemosina, dovrebbero essere investimenti diretti e non solo sotto forma di incentivi fiscali.
Sono lontani gli anni in cui a studiosi italiani che andavano a farsi le ossa all’estero corrispondeva un numero assimilabile di studiosi stranieri che veniva in Italia a completare il proprio percorso. La nostra emigrazione scientifica è a senso unico, ed è in uscita e difficilmente si torna indietro perché mancano completamente prospettive, perché manca una visione. È evidente che continuare ad agire come se questo fosse un problema tutto sommato secondario, non farà che votarci a diventare negli anni, non ne passeranno molti, un Paese sempre più marginale (essere posizionati, per crescita, tra Portogallo e Grecia dovrebbe farci comprendere che è tempo di cambiare rotta) e a nulla servirà fare appello a un passato glorioso che rispolveriamo in maniera utilitaristica, senza davvero riuscire a sopportarne il peso. Un Paese in cui alla mancanza di diritti civili basilari si affianca anche la mancanza di prospettive reali di realizzazione e l’impossibilità di poter contribuire con il proprio lavoro e i propri talenti al miglioramento delle condizioni di vita di tutti, è un Paese nel quale si resta quasi esclusivamente per mancanza di alternative.
E tutto è immobile mentre assistiamo al Nord alla fine della tradizione imprenditoriale e mentre al Sud vantiamo bellezze naturali rese irraggiungibili da vie di comunicazione impraticabili.
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