I MOTIVI PSICOLOGICI Le manifestazioni dell’odio in Rete sono tante e a tutti i livelli. Ogni spunto è buono per replicare in tono polemico o manifestare, senza alcuna remora, la propria avversione profonda per idee, fatti o persone. Quali meccanismi scattano, nella testa delle persone? Lo abbiamo chiesto al prof. Giuseppe Riva, professore ordinario di Psicologia presso l’università Cattolica di Milano e responsabile delle ricerche sulle applicazioni cliniche della Cybertherapy dell’Auxologico di Milano per il quale sta seguendo il progetto “Cave” di Realtà Virtuale immersiva a scopo terapeutico e riabilitativo. "Le motivazioni sono diverse. il presupposto è che la manifestazione dell’odio è una risposta a un evento avvertito come emotivamente spiacevole. E se nelle vita reale abbiamo imparato a controllare le emozioni che potrebbero diventare potenzialmente distruttive, come l’odio appunto, nel mondo virtuale ciò non accade perché in Rete la corporeità non esiste".
Spieghiamo meglio: "Il mio corpo reale, la mia gestualità, il mio sguardo, la mia mimica facciale sono del tutto invisibili all’altro, così come io non avrò nessuna percezione della sua corporeità. Dunque, qualunque reazione io abbia, l’altro non la vedrà. Esplicitare in faccia a una persona il proprio odio e disappunto è molto diverso che farlo su Facebook o tramite sms (il concetto è lo stesso). Quando esprimo disprezzo nei confronti di qualcuno che ho davvero di fronte, avvertirò il suo disagio, la sua disapprovazione e in me si attiverà una sorta di controllo implicito. La ragione è molto semplice, è legata a come siamo fatti. Dipende dai neuroni specchio, cellule nervose che risuonano nel nostro cervello proprio come se a compiere quel gesto, ad avere quella reazione, fossimo noi in prima persona. E ciò determina una diversa modulazione delle emozioni. Niente di tutto ciò avviene, invece, ovviamente in Rete. Il corpo non c’è e, in alcuni casi, non si compare neppure con nome e cognome, perché ci si nasconde dietro pseudonimi o caricature. Ci si sente così ancora più protetti e al riparo da qualunque possibile ripercussione. Quindi ci si concede tutto, senza limiti e non si avvertono gli effetti devastanti dell’odio. Anzi, paradossalmente, più è forte e radicale il nostro astio, minore sarà l’impatto emotivo che avvertiamo.
È come se fossimo preda di una specie di escalation che ci permette di dire qualunque cosa e alla fine niente ci turba più. Inoltre, esiste anche l’effetto contagio: più il gruppo inizia a spararla grossa, più si segue il gregge. Lo stato emotivo generale è contagioso in genere, anche nella vita reale, ma in rete tutto questo è amplificato. Inoltre, più il sentimento è omologato, ossia più persone provano la stessa emozione, meno si risulterà visibili nelle proprie manifestazioni. Così, mimetizzandosi nella massa, scompare del tutto anche il proprio senso di responsabilità.
Il web rappresenta sempre più un’occasione ghiotta per esprimere il proprio disagio, sintomo di un clima diffuso di insoddisfazione e del desiderio di sfogarsi senza, si pensa erroneamente, alcuna conseguenza. È un mezzo per dire la propria su tutto, spesso senza avere idee precise o conoscenze appropriate. La rete è un “bar sport” di dimensioni colossali in cui le distanze culturali e sociali sono del tutto scomparse e in cui i propri sentimenti di disappunto si possono esprimere su qualunque cosa e su chiunque con estrema disinibizione. È insomma un modo economico e semplice per dar sfogo al proprio disagio.
Peccato però che spesso si dimentichi che “scripta manent” e che il proprio giudizio perentorio e negativo resti lì, anche se io ho cambiato idea l’attimo dopo. E anche se non mi sono minimamente reso conto del meccanismo deleterio che ho innescato o a cui ho partecipato con grande leggerezza.
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